La critica letteraria nel Rinascimento

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Il Rinascimento fu un periodo cruciale per la storia della lingua italiana, perché fu in questi anni che si definì la riflessione critica sul volgare. Dopo il “ritorno” del latino nel Quattrocento, infatti, vennero recuperate le cosiddette “tre corone”: Petrarca e Boccaccio (soprattutto) e, in misura minore, anche Dante, considerato però in secondo piano malgrado la sua grandezza per l’uso di termini (soprattutto nell’Inferno) troppo legati a uno stile comico e basso.Furono soprattutto le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo a sistemare e ordinare l’universo delle forme letterarie, prendendo il Petrarca come archetipo assoluto e, in un certo senso, agendo da contrappunto “letterario” al ritratto ideale del perfetto gentiluomo contenuto nel Cortegiano di Baldassar Castiglione. Da registrarsi poi il ritorno di Aristotele, che entrò a far parte della cultura del Rinascimento dapprima grazie alla traduzione della Poetica nel 1498 per opera di Giorgio Valla, e poi per il primo commento a quell’opera fondamentale per mano di Robertello nel 1548. Il dibattito sull’aristotelismo e sulle sue peculiarità normative, come l’unità di tempo, di luogo e di azione, fu animato e destinato a continuare anche nei decenni successivi, anche in relazione ai suoi rapporti con l’estetica platonica.In particolare è con le opere di Trissino, Speroni e Castelvetro che si può parlare di vittoria del paradigma aristotelico. All’aristotelismo, però, continuerà a opporsi un (perdente) antiaristotelismo da parte degli autori considerati più “eterodossi” e poco propensi a piegarsi a una normativa piuttosto rigida dal punto di vista della forma letteraria e una altrettanto rigorosa a riguardo della lingua da usare, un toscano il più possibile vicino a quello dei grandi e riconosciuti maestri del passato. Nel Cinquecento anche la filologia attraversa un momento di grande splendore, sia rivolta verso i testi più antichi “laici” che quelli biblici.